Sesto San Giovanni (Città Metropolitana di Milano) – Creazione di video e podcast, ore di coding e robotica, spartiti musicali sui tablet, formazione continua degli insegnanti ma pure corsi per genitori per l’uso dell’iPad. Essere una scuola digitale come i Salesiani di Sesto – certificata Apple Distinguished School e caso di studio a livello nazionale – non è (solo) una questione di investimenti e dispositivi distribuiti alunno per alunno. È soprattutto «un approccio integrato a 360 gradi, che ha sempre al centro la sfida educativa», dice con forza Tommaso Franchini, responsabile Didattica ed Educativo digitale Opere Sociali don Bosco (2.700 studenti e 300 docenti).
Come inizia la trasformazione dei Salesani?
«Nel 2012 c’è stata la prima grande spinta con due scelte forti: portare la tecnologia nelle aule e pensare che la tecnologia non sia uno strumento ma un contesto e, quindi, realizzare ambienti di un certo tipo. Con i primi fondi dello Stato si è lavorato sull’infrastruttura per avere uno scheletro robusto su cui operare. Nel 2015 arriviamo a coprire tutti i settori con i dispositivi e software Apple».
La tecnologia rende attivi o passivi?
«Nessuno è fuori dalla dinamica. L’approccio integrato consente che nessuno resti indietro. Il modello deve essere per tutti: non è una sperimentazione, applichiamo il digitale quotidianamente. Deve essere un modello per davvero: il dispositivo non è un gadget, un accessorio. E poi dobbiamo poter pensare in grande. Il genitore che arriva al corso con l’iPad del figlio è assolutamente attivo: può decidere che controlli mettere in più rispetto a quelli della scuola, capire la differenza tra un video didattico e uno per divertimento, comprendere che uso il ragazzo sta facendo del dispositivo».
Cosa significa che la tecnologia è strumento di didattica?
«La scuola non può chiamarsi fuori da quest’evoluzione. Gli studenti apprendono fin da piccoli un uso produttivo del mezzo. Ad esempio, col video devono portare anche un testo scritto, raccontare il processo. Libri e quaderni digitali permettono di integrare la lezione con esercizi interattivi, siti, mappe. Anche i singoli docenti sono portati a essere più attivi e personalizzare la lezione: chi usa più schede grafiche, chi foto, chi link. Già nel 2018 gli studenti malati potevano collegarsi ai file condivisi per lavorare in gruppo da casa. La pandemia da noi ha avuto effetti più lievi».
E chi ha bisogno di carta e penna?
«Metodi già standardizzati permettono a qualunque grado di abilità di essere inseriti e permettono di rispondere a ogni esigenza: se l’allievo ha bisogno della penna per non perdere un’abilità, se ha bisogno della lettura. Ci sono gruppi di lavoro che analizzano periodicamente i dati e progettano. Un’équipe lavora proprio sulla delicata sfida dell’inclusione. Vogliamo raffinare ancora più gli strumenti».
È un modello esportabile?
«Sì, proprio perché è un approccio, non una dotazione. In base all’investimento che si può fare, si possono affrontare degli step, ma il focus deve restare sulla didattica. L’orgoglio vero è un metodo dove la tecnologia può fiorire».
Oltre a implementare l’inclusione, la prossima sfida?
«Stiamo studiando e provando a capire come portare la realtà aumentata e la realtà virtuale nella didattica».