Milano – «Lo sviluppo dell’internet delle cose può portare grandi vantaggi, ma occorre avere un occhio di riguardo per la privacy e la cyber sicurezza». Guido Di Fraia, prorettore e fondatore del Laboratorio di intelligenza artificiale dell’Università IULM, ragiona su potenzialità e limiti delle tecnologie IoT.
Professore, come e quando nasce l’internet delle cose?
«Inizialmente, internet aveva un uso esclusivamente militare. Poi, grazie alla progressiva semplicità d’accesso, è diventata una rete delle persone, capace di metterci tutti in contatto l’uno con l’altro. A cavallo del nuovo millennio, questa rete di persone si è estesa anche agli oggetti. Oggi con “internet delle cose” ci si riferisce proprio a questo: alla possibilità che ogni oggetto diventi il nodo di un network, all’interno del quale può ricevere e trasmettere informazioni».
Quali sono gli ambiti in cui queste tecnologie si possono rivelare più utili?
«Oggi l’utilizzo principale è quello delle imprese, che grazie all’internet delle cose possono abbattere i costi e ottimizzare la produzione. Un esempio è la cosiddetta manutenzione predittiva: fino a qualche anno fa, gli operatori di energia elettrica erano costretti a mandare fisicamente gli operai a fare sopralluoghi, manutenzioni e risolvere guasti, anche nei luoghi più remoti. Oggi, invece, è sufficiente posizionare sensori intelligenti, connessi in rete e in grado di riconoscere cosa sta succedendo. In altre parole, si agisce prima che avvenga il guasto. E lo stesso accade anche con molti macchinari industriali».
E per i cittadini?
«Anche qui si potrebbero fare tantissimi esempi. L’unico limite di applicazione spesso è la fantasia umana. Si va dalle app che gestiscono in autonomia l’irrigamento delle piante sul terrazzo al frigorifero intelligente che ordina la spesa online. Poi c’è l’ambito medico: esistono dispositivi in grado di mappare alcuni indicatori e svolgere un’attività di controllo sulla salute della persona. In ambito sportivo, invece, alcuni tennisti usano le tecnologie IoT per incollare un sensore alla propria racchetta. In questo modo si possono studiare i movimenti, capire cosa si sta sbagliando e perfezionare la tecnica».
Come può l’internet delle cose aiutare lo sviluppo della città?
«Milano ha avviato molti progetti virtuosi, con una giusta integrazione pubblico-privato. Anche qui si possono fare molti esempi: il controllo delle infrastrutture a rischio usura, la verifica della sostenibilità ambientale degli edifici oppure l’efficientamento dell’illuminazione pubblica con i lampioni intelligenti, che si accendono solo quando c’è davvero bisogno. Uno degli ambiti di più ampia applicazione, però, è la mobilità. Grazie all’IoT si possono orientare i percorsi, ridurre il traffico in alcune zone della città ed evitare che si creino sacche di smog».
Tutto questo però comporta anche un rischio per la privacy. Come si può continuare a investire su queste tecnologie mantenendo un occhio di riguardo per i dati degli utenti?
«È molto complicato e, per certi aspetti, quasi impossibile. La condizione principale per ridurre il problema è una: le aziende che offrono questi servizi devono essere rispettose dei dati degli utenti. Le persone hanno diritto alla trasparenza sui dati raccolti e devono poter essere nella condizione di far sì che rimangano riservati e non siano venduti a terzi. Se da un lato le aziende devono diventare più responsabili, dall’altro le persone devono diventare più consapevoli. Serve un grande lavoro di media education e sensibilizzazione».